«Allenarsi a incontrarsi nella diversità è l’unico modo per evitare altre Shoah»
Giornata della Memoria: Diana parla di Alberta
Ricordando Alberta Levi Temin, la lezione della
professoressa Diana Pezza Borrelli in occasione
della giornata della memoria
ISCHIA. «Parlerò finché
avrò voce, perché la vita è bella, ma deve essere
bella per tutti». Era con questa frase che terminava
i suoi interventi Alberta Levi Temin una delle
ultime sopravvissute all’olocausto che fino
all’agosto dello scorso anno ha portato in giro la
sua testimonianza, raccontandola agli studenti di
tutta Italia, e alle varie comunità per chiedere
loro di non dimenticare. A raccontare la sua
esperienza di vita questa volta è la professoressa
Diana Pezza Borrelli una delle fondatrici
dell’associazione Amicizia ebraico cristiana che
mercoledì scorso è stata ospite della scuola media
Scotti. «L’ultima volta mi telefonò e mi disse “non
ho più voce” quindi parla tu, continua a parlare tu
per il dialogo e per l’unità; sono corsa da Ischia a
Napoli per salutarla un’ultima volta. Diceva sempre
di essere stata messa sul piedistallo, in realtà era
stata solo accesa la luce sulla ricchezza della sua
vita, della sua testimonianza. All’inizio parlava
della Shoah, della sua storia, dell’orrore dei
campi, ma a mano a mano che incontrava i ragazzi
nelle scuole, nelle comunità cristiane e islamiche,
ha colto che non bastava parlare della sua vicenda e
basta, ma che quella vicenda serviva a dire “la vita
è bella, ma deve esserlo per tutti; io ho vissuto la
discriminazione raziale, ma voglio lavorare per il
dialogo, per la pace». La professoressa Diana Pezza
Borrelli nel suo accorato intervento ha voluto
trasmettere ai ragazzi quella regola d’oro presente
in tutti i testi sacri e in tutte le culture
religiose “Non fare agli altri quello che non
vorresti fosse fatto a te”. «Questa frase è scritta
fuori la sala dell’assemblea dell’Onu; non è un
precetto solo religioso, e quello di oggi non è un
incontro che facciamo per raccontare dei fatti, ma
per invitarvi a scegliere questa regola di vita. Il
vicesindaco e l’assessore nella politica, i docenti
nelle scuole e voi nelle vostre classi. Si sente
parlare spesso di vicende di bullismo, episodi di
violenza, emarginazione, ma la domanda da farsi è:
io vorrei che si facesse a me ciò che io sto facendo
all’altro?
Com’è possibile che ci
si alleni a giocare, a sfruttare un’abilità e non ci
si alleni al dialogo con l’altro che è diverso da
me? Se io non mi alleno a incontrare chi è diverso
subentra la paura perché l’altro ha un colore della
pelle diverso dal mio, ha un Dio diverso è di genere
diverso. Allenarsi a incontrarsi nella diversità è
l’unica forma di prevenzione al ripetersi episodi di
tragedie, di guerre, come la Shoah». È Alberta Levi
Temin a parlare della sua esperienza, tramite un
video proiettato ai ragazzi, quella volta che sua
madre e sua sorella furono portate via e l’altra
volta ancora quando riuscirono a ricongiungersi in
quello che non è inopportuno chiamare “miracolo”.
«Alberta portava sempre l’esempio di una foto di un
giovane soldato tedesco con un fucile puntato alle
spalle a un bambino, nel ghetto di Varsavia. Come
può un soldato, che sa bene dove sta portando queste
persone, a spingere donne che potrebbero essere
mogli, madri e bambini che potevano essere figli,
sapendo che si andava in un campo di sterminio?
Perché era stato allenato all’odio, era stato
educato a obbedire senza ragionare». L’intervento
della professoressa si è spostato quindi su una
figura dello scorso ‘900, Don Milani che in un libro
scriveva che “l’obbedienza non è più una virtù”, «il
mondo è uno solo, è piccolissimo e dobbiamo salvarlo
insieme al di là del colore della pelle, del credo
religioso e dell’appartenenza tra Nord e Sud.
Alberta andava a scuola a Ferrara alla scuola
comunale che era vicino casa; allora le classi non
erano miste, erano 40 bambine e Alberta era l’unica
bimba ebrea.
La mamma le disse che,
prima di iniziare le lezioni, avrebbe dovuto alzarsi
in piedi come tutte le altre, ma che non avrebbe
detto quella preghiera; il suo cuore in silenzio
avrebbe detto “Shmà Israel adonai”. Per spiegarle
che la differenza con le altre bambine non era poi
chissà quale, le fece il disegno di una piramide con
tanti lati di base, ognuno dei quali rappresentava
un popolo diverso per tradizioni o colore della
pelle. C’è chi va in sinagoga, chi in chiesa, chi in
moschea o nei templi, ma tutti per vie diverse
convergono a un unico punto e da lì sono visti tutti
in egual misura. Noi siamo un’unica famiglia umana e
dobbiamo lavorare per l’unità e la fraternità o,
come capita nelle nostre famiglie, litigheremo e a
catena e provocheremo altre forme di Shoah».
Da IL GOLFO - del 27 gennaio 2017